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Pier Paolo Pasolini: intervista impossibile

A pochi giorni dal centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini abbiamo scelto di “incontrarlo” in un’intervista impossibile, come se quella terribile notte ad Ostia non fosse mai accaduta.  E, così, il nostro dramaturg Fabio Pisano ha immaginato il susseguirsi di domande e risposte, quasi il dialogo fosse la forma più pura per ricordare uno dei più grandi intellettuali del ‘900.

Se potessi intervistare Pier Paolo Pasolini, oggi, non saprei da dove cominciare. Se potessi intervistare Pier Paolo Pasolini, gli farei delle domande alle quali forse non potrebbe rispondere o forse, potrebbe già aver risposto. Fin troppo bene“. Fabio Pisano

La prima domanda per Pasolini, sarebbe sulla sua famiglia …

La mia famiglia è il tipico prodotto dell’unità d’Italia. Un prodotto dell’incrocio, come amo definirlo io. I miei genitori erano di estrazioni molto diverse, mio padre era un discendente di un’antica famiglia nobiliare della Romagna, mia madre invece, figlia di contadini friuliani che col tempo sono divenuti alla condizione di piccoli borghesi. Mio nonno materno era del ramo della distilleria, mentre la madre di mia madre era piemontese. Una famiglia di un tipo che qualche anno prima non si sarebbe mai potuta realizzare. Effetti dell’unità, per l’appunto.

Il suo primo approccio, e il rapporto con la poesia.

Avevo sei anni. Su un quadernetto, scrivevo poesie e le accompagnavo ai disegni; non so, forse il timore era che non potessero essere capite. La poesia per me ha sempre rappresentato il primo modo di esprimere la mia <<nostalgia del Sacro>>; i miei contemporanei vivevano nella totale assenza di senso del sacro, e non mi capacitavo e ancor oggi mi capacito di come si possa vivere senza senso del sacro. Ecco, la poesia per me rappresenta il modo e la possibilità di esprimere quel sacro; sarà poi il motore primo e motivo fondante di tutta la mia opera, ma il primo approccio e forse l’approccio più intimo l’ho avuto con la poesia. Parlo ovviamente di un sacro immanente, un sacro celato dietro il reale, a cui la poesia può dare forma e corpo.

Le posso chiedere di suo fratello Guidalberto Pasolini?

Può, certo. Come io potrei non rispondere. Non ho molto da dire su mio fratello. La sua assenza, il suo vuoto ha rappresentato per me un pericolo, un pericolo reale. Fu una disgrazia, una disgrazia che precipitò su mia madre e su di me; una disgrazia che parve una montagna spaventosa, enorme da dover valicare. Ecco, quando io penso a mio fratello, anche a distanza di ottant’anni, non posso non piangere, e il solo suo pensiero fa emergere confusi pensieri e lacrime. Ricordo che le prime sensazioni che vissi, quando seppi del suo brutale assassinio, fu orrore, una ripugnanza nel vivere.

Adesso l’unico pensiero che mi consola è la capacità di piangerlo sempre, senza fine. Spesso ci si impone di essere saggi, di superare e rassegnarsi; ma non è possibile, anzi direi che è mostruoso, perché questa rassegnazione in realtà è egoismo, è un qualcosa di crudele, disumano. Non è possibile rassegnarsi, perché tutto l’amore che mio fratello aveva per me io vorrei contraccambiarlo in qualche maniera. Ma non posso. Non potrò.

Mi piacerebbe che lei potesse vedere l’omologazione che viviamo oggi, e chiederle che ne pensa, cosa penserebbe Pasolini del nostro presente.

L’omologazione di oggi è un processo di ieri, un processo partito da lontano; il potere ha ben inteso che per comandare e imporre, bisogna prima entrare nei gusti e nelle paure della gente. Della massa; e niente più dell’omologazione, può aiutare a farlo. I mezzi di comunicazione hanno tutti lo stesso fine, lo stesso palinsesto; imporre ad un pensiero libero il proprio pensiero è il primo passo fondamentale. E niente più della televisione e di ciò che oggi vi invade la vita, ve la corrode, può farlo. Oggi il mito di poter avere tutto, che è andato oltre quello che era il mio pensiero di consumismo, ha portato al sonno della ragione. E’ una nuova, sottile forma di fascismo. I vecchi fascisti possono uccidere e ferire ma sono meglio di coloro che comandano in questo grigio giorno dell’avvenire. I fascisti non toccano l’anima del popolo. Oggi invece il popolo comincia a morire. Qualcuno ha toccato la sua anima. Vecchi e giovani vivono, brutti e cattivi, come in un sogno, come rinnegati, per quel po’ di ricchezza e libertà che gli hanno dato e non per buon cuore i vecchi Antifascisti che sono i veri Fascisti… che sono i leaders dell’acculturazione, e non solo toccano le anime, ma se la succhiano al centro come vampiri: i leaders del “sesso in permesso”.

Pasolini, nel piccolo universo culturale e politico italiano, è sempre stato considerato un estraneo.

Basti pensare che dopo la mia morte, calò su di me un silenzio incredibile. Non che dovessi avere chissà quale attenzione, ma i media e la cultura della censura laico-borghese che mi circondava, alla mia morte tirò un vero e proprio sospiro di sollievo; seppellì le mie parole insieme a me; io morii in quel momento, non prima né dopo. I mezzi di comunicazione fecero il resto. Il mondo della cultura – in cui io ho vissuto per una vocazione letteraria, che si rivelava ogni giorno più estranea a tale società e a tale mondo – era il luogo deputato della stupidità, della viltà e della meschinità. Non avrei potuto accettare nulla del mondo in cui vivevo: non solo gli apparati del centralismo statale – burocrazia, magistratura, esercito, scuola, e il resto -, ma nemmeno le sue minoranze colte. Chi invece di capelli lunghi aveva idee era ben abituato a questo restare dietro al branco, era da tutta la vita che soffriva questo dolore questo atroce dolore del non conoscere fraternità.

Veniamo proprio ai famosi “capelloni”, a quel sessantotto. Ricorda cosa disse?

Era tardi. Era troppo tardi. Il sessantotto doveva avvenire nella generazione dei padri di quei ragazzi. Nei primi anni cinquanta, appunto. Vale a dire nel momento in cui il paese stava passivamente accentando l’indottrinamento che provocò l’arrivo dei capitali dagli Stati Uniti, quei capitali che avevano creato i presupposti del boom economico previsto dal piano Marshall. Quei padri, che nei primi anni cinquanta erano ragazzi, si lasciarono cogliere impreparati, affascinati dall’ideologia del consumismo e del tutto alla portata di tutti. Il sessantotto non l’ho mai ostracizzato, ho soltanto detto che quelli che chiamavano “capelloni”, sarebbero finiti col diventare la borghesia del futuro; e lei mi può dire se ho sbagliato o meno. Ma a primo acchito, guardandomi oggi intorno, direi di non averci visto male.

Arriviamo al rapporto di Pasolini con il cinema.

Al cinema sono arrivato dopo i quarant’anni, e per me questo fatto è stato fondamentale; girai il mio primo film soltanto per esprimermi in una tecnica differente, tecnica di cui ignoravo tutto e che ho appreso per l’appunto, con questo primo film. Che poi ho dovuto apprendere di volta in volta. Perché ogni film ha una tecnica differente, una tecnica adatta. Fare film mi ha permesso di raggiungere un pubblico molto più vasto; la narrativa e la poesia perdevano sempre più terreno, mentre il cinema si rivelò una nuova, infallibile macchina da guerra. Decisi di allearmi con essa, ma per esprimere ciò che volevo esprimere anche nella narrativa. Sceglievo preferenzialmente attori non professionisti, soprattutto sottoproletari che interpretassero loro stessi. Scelsi anche dei sublimi interpreti, come il dolce Totò, uomo di raffinata intelligenza, impegnato in una comicità di alto livello culturale. Cercavo di allontanarmi dal naturalismo, e il cinema con il suo montaggio lo permetteva. Mi rifacevo a tecniche pittoriche, o ai sentimenti che in quel momento preponderavano nella mia anima; Accattone, per esempio, nacque in un momento di sconforto, che è riassumibile nel governo Tamboni appoggiato dai Missini; il film risente infatti del clima politico di spostamento a destra, che fortunatamente ebbe vita breve.

La penultima domanda è una domanda cui tengo molto: Ragazzi di vita. Perché?

Perché ciò che osservavo era troppo importante, per tenerlo chiuso nella mia mente. Le immagini di una Roma periferica del secondo dopoguerra erano spietate e reali; decisi di raccontare senza troppi fronzoli anzi, in modo crudo e reale, la tragicità di chi è sopravvissuto alla guerra, ma muore, soccombe ogni giorno alla propria guerra personale, fatta di vite spezzate, di miseria che diviene quotidiana. Descrissi ciò che vedevo, finanche ciò che sentivo, gli odori reali, il fumo o la polvere, la terra che non si staccano mai dai vestiti, per quanto uno ci possa provare. E’ un romanzo di formazione, un romanzo pessimista direbbero oggi, in realtà amavo descrivere coloro che non sono istruiti ma che sono ancora autentici, mentre i borghesi contraffatti e condannati alla meschinità più assoluta. Il Riccetto rischia la propria vita per salvare una rondine; oggi c’è qualcuno che quella rondine, almeno la noterebbe? Il Riccetto salva una rondine, e ormai corrotto dalla società che lo circonda, in seguito lascia annegare un bambino senza far nulla per salvarlo. Altruismo e generosità sono prerogative di una certa età, di una certa innocenza e di un certo modo di intendere la vita che oggi, più di ieri, divengono sempre più rari, inghiottiti da qualcosa di più grande, più pratico, più consumistico e abitudinario. Oggi non so se lo scriverei ancora così, ma quello che so è che per me fu necessario, imprescindibile. Fu un momento che diede vita ad un altro Pier Paolo Pasolini.

Infine l’idroscalo. La sua morte. La morte di Pier Paolo Pasolini.

La mia morte? La mia morte è stata una liberazione. Ma non dirò per chi. Piuttosto, dovreste dirmelo voi. Ma dopo anni non siete ancora in grado di fare i conti con la mia vita; non mi meraviglia che non riusciate a farli con la mia morte.

Pasolini

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